Storicamente, i pazienti con un buon performance status e un NSCLC di stadio III (localmente avanzato), non resecabile, sono stati trattati con chemioterapia a base di platino somministrata con radioterapia a dose definita (chemioradioterapia concomitante). Tuttavia, i risultati sono stati scarsi perché la maggior parte dei pazienti ha una progressione della malattia dopo la chemioradioterapia, con circa il 15-30% dei pazienti che restano in vita a 5 anni, il che corrisponde a una sopravvivenza mediana non superiore a 28 mesi. Nella malattia avanzata, gli inibitori del checkpoint immunitario targeting per la proteina di morte cellulare programmata (PD-1) e per il suo ligando (PD-L1) hanno dimostrato superiorità rispetto alla chemioterapia standard, sia in seconda linea che in prima linea, sollevando, così, la questione circa il fatto che il loro utilizzo nella malattia localmente avanzata potrebbe migliorare l’esito per il paziente. Durvalumab, un anticorpo monoclonale umano selettivo per IgG1, blocca il legame di PD-L1 a PD-1 e CD80, consentendo alle cellule T di riconoscere e uccidere le cellule tumorali. L’evidenza preclinica suggerisce che la chemio-radioterapia può up-regolare l’espressione di PD-L1 nelle cellule tumorali e il blocco di PD-L1 può aiutare a ripristinare la risposta immunitaria sistemica e a lungo termine dopo la chemioradioterapia. L’ipotesi che durvalumab possa migliorare la prognosi nei pazienti con NSCLC localmente avanzato trattati con chemioradioterapia è stata confermata nello studio PACIFIC. In questo studio, i pazienti con NSCLC al III stadio che non progredivano dopo chemioradioterapia concomitante sono stati randomizzati a durvalumab o placebo per 1 anno. Lo studio ha dimostrato che durvalumab prolunga significativamente la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la sopravvivenza globale (OS) rispetto al placebo. Di conseguenza, 1 anno di durvalumab dopo chemioradioterapia è diventato il nuovo standard di cura per il NSCLC in stadio III non resecabile. Sfortunatamente, una percentuale consistente di pazienti alla fine progredisce; il trattamento ottimale dopo il regime PACIFIC, quindi, non è ben definito per due ragioni principali. La prima riguarda il ruolo dell’immunoterapia in pazienti precedentemente esposti a durvalumab. La seconda è correlata al contesto clinico. In effetti, il tempo che intercorre dall’ultima dose di durvalumab alla recidiva descrive diversi contesti clinici in base ai quali gli individui che progrediscono durante durvalumab potrebbero essere candidati per la seconda linea di trattamento, generalmente consistente in una terapia con un singolo agente, (docetaxel, pemetrexed o gemcitabina) mentre quelli che progrediscono dopo aver completato il durvalumab potrebbe essere candidati ad un re-challenge a base di doppio platino. Nei pazienti candidati alla chemioterapia a singolo agente, il potenziale impatto della continuazione dell’immunoterapia è sconosciuto. Nei pazienti candidati alla terapia a base di platino, studi clinici con inibitori del checkpoint in aggiunta a chemioterapia a base di platino hanno dimostrato che la combinazione immunochemioterapica è superiore alla terapia standard a base di doppio platino indipendentemente dall’istologia e indipendentemente dall’espressione del PD-L1. Gli inibitori di PARP (PARPi), una terapia antitumorale cha ha come bersaglio la poli(ADP-ribosio) polimerasi, sono i primi farmaci clinicamente approvati ad essere stati progettati per sfruttare la letalità sintetica. I tumori che insorgono in pazienti portatori di mutazioni germinali in BRCA1 o in BRCA2 sono sensibili a PARPi in quanto hanno un tipo specifico di difetto nella riparazione del DNA. PARPi mostra anche un’attività promettente nei tumori più comuni che condividono questo difetto di riparazione. Il razionale originale era che PARPi poteva sensibilizzare le cellule tumorali ai trattamenti convenzionali che causano danni al DNA, inclusi i molteplici approcci chemioterapici o radioterapici, che restano la spina dorsale del trattamento per la maggior parte dei malati di cancro, compresi color che sono affetti da NSCLC. Inibendo la riparazione PARP-mediata dei danni al DNA creati dalla chemio o dalla radioterapia, si potrebbe ottenere una maggiore potenza. Gli sforzi mirati alla scoperta di farmaci, in questo contest, hanno portato allo sviluppo di PARPi clinici, tra cui olaparib (KuDOS/AstraZeneca). Olaparib è il primo PARPi approvato dalla Food and Drug Administration per la terapia di mantenimento in pazienti adulti con carcinoma ovarico ricorrente, tumore delle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario, a seguito di una risposta completa o parziale alla chemioterapia a base di platino, indipendentemente dallo status di BRCA. Studi recenti stanno esaminando la possibilità di combinare PARPi con gli inibitori del checkpoint. Questi studi si basano in parte sull’ipotesi che i tumori con mutazione in BRCA1, BRCA2 o BRCAness abbiano un carico mutageno più elevato e quindi potenzialmente un carico di neo-antigene elevato, che si suppone produca una risposta immunitaria antitumorale più forte. Inoltre, vi sono prove che il deficit di BRCA possa indurre una risposta immunitaria innata STING-dipendente, che potrebbe anche influenzare l’effetto antitumorale della combinazione di farmaci PARPi/immunoterapia. La combinazione di durvalumab e olaparib è stata valutata in uno studio di fase 1. In questo studio, durvalumab è stato somministrato a 10 mg/kg ogni 2 settimane o a 1500 mg ogni 4 settimane con olaparib in compresse da 300 mg due volte al giorno e non è stata registrata alcuna tossicità dose-limitante. Due risposte parziali e otto stabilità di malattia della durata ≥4 mesi sono state osservate in pazienti che hanno ricevuto durvalumab più olaparib, con un tasso di controllo della malattia dell’83%. La risposta alla terapia era indipendente dall’espressione di PD-L1. Sulla base di queste considerazioni, esiste un fondamento logico per indagare se, nei pazienti che recidivano durante o dopo durvalumab somministrato come terapia di mantenimento nel NSCLC al III stadio trattato con chemioradioterapia concomitante, la sopravvivenza globale possa migliorare nelle seguenti due situazioni: 1) Quando durvalumab viene aggiunto a chemioterapia di seconda linea a scelta dello sperimentatore; 2) Quando olaparib è utilizzato dopo una combinazione di chemioterapia con doppio platino e durvalumab.
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